Incontro Andrea Gehri nello show room a Porza. Nella breve attesa inizio a curiosare tra marmi e rivestimenti di ogni tipo. Resto colpita dalla somiglianza del gres al legno, incredibile…
«È un prodotto che è evoluto estremamente negli ultimi anni, non solo è praticamente identico al legno, ma anche al tatto si fatica a capire la differenza».
È da molto che non venivo qui, devo dire che ci sono stati tanti cambiamenti. Ma vorrei iniziare da te, dalle tue origini nordiche…
(Sorride) «Non tutti lo sanno, effettivamente mio padre era germanico, originario della Foresta Nera, mentre mia mamma era ticinese. Si sono incontrati, pensa, a Cureggia e… sono stati insieme una vita».
Come mai tuo padre si è trasferito in Ticino? Anche perché stiamo parlando del dopoguerra…
«A dire la verità è una storia abbastanza triste, almeno inizialmente. A mio padre, quando aveva ventidue anni, era stato diagnosticato un grosso problema ad un polmone. In Germania gli avevano proposto di operarsi, un intervento impegnativo, anche perché volevano togliergli parte dell’organo. Fortunatamente mio padre si rivolse a un altro medico che gli suggerì di cambiare clima e quindi scelse il Ticino, quasi per caso. Era il 1953, 1954, dopo la Seconda guerra mondiale, e in effetti per un germanico venire in terra straniera non era cosa semplice, anche perché non parlava una parola di italiano».
La tua società è giunta alla terza generazione, questo significa che già tuo padre era attivo nel settore dei rivestimenti?
«Esatto, è stato lui il primo e devo dire, non perché era mio padre, era apprezzato da molti per la sua bravura e voglia di lavorare. Quando è arrivato in Ticino era Maestro piastrellista, ha iniziato prima come semplice operaio e poi, dopo tanti sacrifici – a quei tempi si lavorava anche il sabato e la domenica per arrotondare – nel 1968 ha aperto la sua attività da indipendente. Il lavoro non gli mancava e nel 1970 ha fondato una società individuale e ha continuato a ingrandirsi. La parte diciamo romantica di questa storia è che la prima ditta per cui mio padre ha lavorato si trovava esattamente qua, su questo sedime, dove siamo ora e che lui stesso aveva acquistato nel 1981. Ti racconto tutto questo per capire quanti passi sono stati fatti, con pazienza, tanta forza di volontà e sacrifici. Ci rifletto spesso, soprattutto in un’era dove regna la frenesia e il voler tutto subito».
Questa è una problematica reale, che non tocca solo i giovani, ma noi tutti. Tu, allora, ti rendevi conto di tutto quello che stava facendo tuo padre?
«No, come spesso succede ci rendiamo conto di quello che hanno fatto i nostri genitori attraverso i figli. Io sono nato nel 1964, ho sempre visto mio padre come una persona che c’era poco in famiglia, non perché facesse una vita sregolata, ma perché ha dedicato la sua intera vita al lavoro e questi erano gli equilibri famigliari, come in molte altre famiglie ticinesi. Secondo me è stata la sua immensa passione per il lavoro a regalargli successo. Lo penso spesso, anche perché un tedesco del dopoguerra era visto come un nazista in Svizzera, eppure lui non si è dato per vinto, ha lavorato tanto e bene, ha conquistato la fiducia dei ticinesi, è diventato uno di loro con umiltà, grato dell’opportunità che il Ticino gli offrì».
La tua storia è diversa, ma si respira quella voglia di mettersi in gioco, di dare il meglio di sé…
«Il mio percorso è iniziato da lontano. Per me il poter seguire mio padre è stato sempre un grande stimolo, passavo con lui ogni momento libero. Così, durante le vacanze estive, mi facevo due mesi di cantiere. Una situazione oggi impensabile (sorride) anche perché avevo sei, sette anni. È così che mi sono innamorato dello stare all’aria aperta, del vedere la passione e la maestria con cui si lavorava in cantiere, ho dei bellissimi ricordi legati a quei momenti. Questo per dirti che la mia non è proprio stata una scelta lavorativa, sapevo già che questa sarebbe stata la mia strada e l’ho seguita in un certo senso in modo naturale, senza forzare nulla».
Ma ti sei messo anche in giacca e cravatta, quindi non era proprio tutto scontato…
«Quello sì, anche perché vedevo le problematiche che doveva affrontare mio padre, quindi dopo le scuole dell’obbligo ho conseguito la maturità commerciale e poi ho lavorato fino a ventuno anni in una fiduciaria. Già allora non bastava più essere soltanto un buon artigiano, mi ero subito reso conto che bisognava anche avere delle competenze a livello amministrativo. Oggi rifarei la stessa scelta».
Questo significa che hai rimesso le salopette a vent’anni passati?
«Esattamente, le ho messe per iniziare l’apprendistato di piastrellista. Ho voluto fare la gavetta, un po’ come si fa nel settore alberghiero e in altre professioni artigianali, si parte dal basso per arrivare ai vertici, ma in questo modo non si perde mai di vista il lavoro di tutti. Penso sia impossibile essere a capo di un’azienda senza conoscere l’attività svolta dai tuoi dipendenti. In ogni caso ho potuto terminare l’apprendistato abbastanza velocemente, anche perché avevo già un diploma scolastico. Sai una cosa? A me piace di più stare in cantiere che in ufficio… questo è il vero me».
Forse anche perché nell’artigianato si respira anche molta arte, penso ai vostri mosaici, alle pose particolari di pietre, marmi…
«Assolutamente sì, l’artigiano deve poter lavorare con le proprie mani e questo da un valore aggiunto e unico all’opera che esegui. Il poter vedere l’avanzamento dei lavori, come sono stati svolti è una sensazione unica. Il mio vantaggio ora è che, conoscendo la professione riesco ad andare in cantiere e riconoscere determinate problematiche, sono un valore aggiunto per l’azienda, anche per quello che riguarda la parte operativa, il trovare soluzioni, il poter consigliare correttamente e di persona il cliente».
Se oggi tuo padre ti vedesse…
«Penso che esprimerebbe grande soddisfazione, quando sono entrato in azienda a 25 anni eravamo in sette, otto persone, oggi siamo in ottanta e mi sento di dire che unitamente al mio team, abbiamo fatto un buon lavoro. Questo anche perché non ho mai smesso di mettermi in gioco, non mi sono mai fermato, quando già ero a capo dell’azienda ho continuato gli studi, ho conseguito il diploma di capo azienda per le piccole e medie imprese e poi mi sono concentrato sulla parte pratica, diventando Maestro piastrellista ed esperto perito federale. Non dico tutto questo per vantarmi, ma per far capire che il successo non è eterno, va continuamente coltivato, mai dato per scontato. Terminate le mie formazioni, sono stato anche per sette anni presidente nazionale dell’Associazione Svizzera delle Piastrelle e 11 anni di quella ticinese, ho avuto modo di incontrare molte persone, poter interagire con loro, creando anche importanti conoscenze e sinergie e, credimi, il potersi confrontare con professionisti del tuo stesso settore è molto importante e, poi termino, dobbiamo fare in modo che questo confronto costruttivo continui anche in futuro per non perdere questo valore immenso del sapere che nessun libro può compensare».
Come abbiamo già accennato in azienda siete arrivati alla terza generazione, sono presenti entrambi i tuoi figli?
«No. Da cinque anni con me c’è mia figlia Deborah, unitamente a mia moglie Manuela, mentre mio figlio, diciamolo, non si è (ancora) appassionato e ha scelto di crescere nell’ambito assicurativo. Sta facendo il suo percorso e se domani dovesse cambiare idea… beh, qui ci sarà sempre un posto per lui. Sono dell’avviso, esattamente come mio padre, che non bisogna influenzare i figli e fare in mondo che seguano la loro strada e le loro convinzioni».
Ma tua figlia non ha fatto l’apprendistato?
(Ride) «No, lei ha fatto una formazione commerciale superiore e un Bachelor in comunicazione e marketing e gestisce tutto quello che è show room acquisti e vendite in azienda. Devo dire che la sua presenza mi è di grande aiuto, anche perché è un ambito, quello della comunicazione e del marketing, che io faccio fatica a seguire».
Immagino che anche tu non hai avuto in passato molto tempo per la famiglia…
«Mia moglie Manuela direbbe che sono stato un po’ (tanto) assente, evidentemente quando sei impegnato professionalmente è difficile conciliare famiglia e lavoro, ma non dico che questo sia giusto. Anche perché un equilibrio diverso sarebbe auspicabile, almeno per le prossime generazioni. Ma ho avuto la fortuna di avere una donna al mio fianco che mi ha sostenuto e si è dedicata completamente alla famiglia, anche se oggi lavora qui con noi; quindi, è anche merito suo se ho potuto seguire altre passioni e crescere con l’azienda. Non posso nascondere che l’impegno messo nella professione è stato molto, per me, come per tutti coloro che iniziano un’attività e vogliono svilupparla; nulla arriva per caso».
Dobbiamo però dire che hai un carattere intraprendente, che non ti sei accontentato del lavoro, hai fatto molto altro…
«Penso che tu abbia ragione, è una questione di carattere, io sono molto curioso, mi piace sentirmi utile, imparare ogni giorno, per questo sono stato impegnato a livello associativo, sia sul piano cantonale, sia federale e questo comporta un impegno di tempo non indifferente».
Puoi spiegarmi meglio “voler sentirmi utile”?
«Amo il mio Paese dal quale ho sempre ricevuto molto, per questa ragione mi sento di voler ridare in termini di impegno, senza un interesse particolare. Questa visione spiega le mie scelte, pensiamo alla Camera di Commercio, dove sono entrato in qualità di membro dell’ufficio presidenziale in rappresentanza del settore artigianale ticinese e mai, dico mai, avrei pensato di diventarne presidente un giorno. Queste sono le costellazioni e le opportunità che capitano nella vita… e vanno colte».
È un ruolo che ti piace molto, che naturalmente ti impegna, ma che allo stesso tempo dà una visione di come effettivamente sta andando il Ticino…
«Ci sono molti timori legati al futuro, questo è vero, ma poi ci sono dati anche molto incoraggianti e noi tutti dobbiamo guardare a questi. Il Ticino ha una piccola economia, ma molto vivace, molto variata e c’è tanta competenza nei diversi ruoli, una ricchezza importante che molto spesso si sottovaluta. Pensiamo che il Ticino ha 350’000 abitanti e offre 240’000 posti di lavoro, è una proporzione estremamente elevata anche in rapporto ad altri cantoni. Mi sento quindi di dire che il nostro substrato economico è estremamente forte, resiliente, ha saputo superare momenti di crisi importanti; quindi, ci sono delle capacità di tenuta solide».
Quali sono i settori in evoluzione, che segneranno il futuro del Ticino?
«I nostri poli, pensiamo a quello futuro di Bellinzona, lo Swiss Innovation Parc, un polo d’eccellenza dove, oltre alle scienze della vita già ora una realtà consolidata, vi sarà spazio per altri settori innovativi. Abbiamo ricercatori, studenti che arrivano da tutto il mondo, ma questo è solo un esempio…».
Si parla spesso di fuga di cervelli dal Ticino, soprattutto perché i salari offerti non sono competitivi con il resto dei cantoni svizzeri…
«Siamo una regione di frontiera e questo porta a vantaggi e svantaggi. Effettivamente abbiamo una pressione sui salari proveniente dalla vicina Italia, dove i salari sono più bassi, ma se vogliamo un Ticino economicamente all’avanguardia abbiamo bisogno di manodopera che non riusciamo a trovare sul nostro territorio, questa è la realtà. Pensiamo ad esempio ai settori sociosanitario, all’edilizia, alla gastronomia e al commercio. Se è vero che abbiamo 78’000 frontalieri è anche vero che il Ticino ha la necessità di poter occupare queste persone. Poi si può sempre discutere quali ambiti si vogliono incentivare o disincentivare, ma questa è un’altra questione».
Anche perché da quanto mi sembra di capire è difficile trovare manodopera qualificata in diversi settori, così come apprendisti…
«Sì, è così, facciamo fatica a trovare personale qualificato e la sensazione è che gli stipendi aumenteranno anche perché l’Italia sta ereggendo delle barriere a protezione dei suoi lavoratori più giovani… è evidente loro vivono il fenomeno inverso: noi ci accaparriamo i loro giovani, magari i più bravi, anche perché ci sono molti professionisti ben formati. Il sentore è che nell’ambito delle costruzioni molti profili di qualità stanno decidendo di rimanere in Italia, dove gli stipendi si stanno alzando, perché non tutti sono disposti a farsi ogni giorno ore di traffico e colonne, la qualità di vita sta diventando sempre più un fattore che viene preso in considerazione dalle giovani generazioni, così come il tempo libero».
E per gli apprendisti?
«Bisogna voler sporcarsi le mani, bisogna sapere che in estate è caldo, in inverno è freddo, ma la soddisfazione di fare un lavoro manuale è grande, naturalmente ci vuole tanta passione e non so fino a che punto i nostri giovani ne abbiamo… questo mi rattrista un po’, anche perché ci sono professioni che realmente rischiano di scomparire perché non si trovano giovani disposti a custodire arti antiche e sapere pratico».
Che rapporto hai e hai avuto con la politica, anche perché avresti potuto essere un candidato papabile per molti partiti?
«Non mi sono mai dedicato molto alla politica, anche se mi sono sempre interessato. Ho avuto un percorso molto leggero dietro le quinte: ero in consiglio comunale a Pregassona e poi a Cadro, ma quando è arrivato il momento decisivo di andare in Municipio… mi sono tolto. Preferisco il mio ruolo di presidente della Camera di Commercio, è molto più qualificante, anche perché mi permette di parlare alla politica senza essere un politico e quindi anche di essere libero dall’etichettatura politica. Io parlo della realtà, parlo a tutti, da sinistra a destra, e questo non ha prezzo, anche perché la politica sta scadendo, c’è una polarizzazione di destra e di sinistra, manca l’equilibrio che fu da sempre rappresentato da politiche di centro che hanno fatto le fortune della Svizzera; quindi, le organizzazioni come la Camera di Commercio possono veramente dare un contributo importante, d’equilibrio e sostanziale alla risoluzione di determinati problemi territoriali, sociali ed economici».
Abbiamo quindi bisogno di rinnovare la politica locale?
«Assolutamente, il politico deve fare il conto con le elezioni, con dei numeri, e ragiona in funzione ai risultati che vuole ottenere, una mossa a sfavore dei cittadini anche perché questo atteggiamento lo distoglie, talvolta, dai problemi reali. I problemi non possono essere affrontati con fini troppo elettorali, dobbiamo trovare soluzioni concrete. A volte, il nostro sistema democratico per eccellenza, diventa addirittura un ostacolo per la crescita del nostro Paese. Abbiamo tempi immani, i carichi burocratici sono in continuo aumento e questo rappresenta un problema per la nostra economia, anche perché gli imprenditori devono avere tempo per dedicarsi al loro lavoro e non prevalentemente alle scartoffie».
La Svizzera attualmente è sollecitata su più fronti, anche quello legato alle catastrofi naturali. Le persone temono che non ci siano i soldi per ricostruire, si parla solo di questo… non capisco, siamo in Svizzera, possiamo permetterci anche di aprire nuovi crediti…
«Siamo troppo svizzeri, lo svizzero è sempre stato abituato a spendere quello che ha a disposizione, un concetto che ha la sua logica. Dobbiamo solo fare attenzione che questo discorso non si rivolti in: più tasse per poter spendere di più, questo sarebbe il declino. Però è vero, quasi incredibile oserei dire: nell’ambito delle catastrofi naturali non esiste un fondo nazionale e io stesso l’ho scoperto poche settimane fa. Ovviamente ci sono dei correttivi da porre, e questo lo si deve fare il prima possibile e non pesando sulle tasche dei contribuenti. Non è possibile che non disponiamo di fondi pubblici per far ripartire la Vallemaggia, la Val Bavona e la Mesolcina, dove ci vorranno anni per ridar vita ai commerci locali e mantenere un’attrattività per il futuro. Le valli sono i nostri giardini, un dono prezioso da proteggere e salvaguardare».
Il Ticino ha ancora molto da fare, per migliorarsi, per rafforzarsi, in poche parole, se ho capito bene, non possiamo permetterci di stare fermi…
«Esatto, abbiamo già molti punti di forza in rapporto ad altre nazioni, penso alla sicurezza, alla stabilità politica e quindi dobbiamo rafforzare la nostra propensione economica verso l’innovazione e migliorare la posizione del Ticino, della Svizzera, sul piano internazionale, anche perché siamo riconosciuti come un Paese forte. Abbiamo ancora molte carte da giocare, ci troviamo tra Zurigo e Milano, non potremo mai competere con queste due realtà economiche, ma possiamo fare e offrire quello che loro non hanno. La nostra grande occasione si chiama Swiss Innovation Park, il parco dell’Innovazione che nascerà sul sedime delle ex Officine, una piattaforma unica per la collaborazione di ricercatori, aziende tecnologiche, startup, chiamate a sviluppare progetti e testare idee sostenibili e innovative. Questo progetto svilupperà competenze che oggi, in Ticino, non ci sono, sarà un’occasione importante per i nostri giovani, dico tutto questo per far capire quanto sia importante ragionare a lungo termine e soprattutto avere una visione per il futuro».
Allora ci serve più coraggio o dobbiamo smetterla di essere in un certo senso negativi e crederci, con convinzione…
«Forse entrambi. Bisogna credere in quello che si fa, fino in fondo, bisogna avere la voglia di progredire e dobbiamo avere il coraggio di chiedere alla politica di creare condizioni quadro per lo sviluppo e il benessere generale del territorio, senza queste premesse faremo fatica a evolvere».
Fatica a evolvere, fatica a trovare giovani desiderosi di sporcarsi le mani, fatica a capire che il successo non è una condizione, ma un lavoro continuo, che implica sacrifici, come anche tanta passione. Sì, perché solo attraverso la passione si arriva all’eccellenza.